martedì 1 novembre 2011

Il corpo pluricefalo



Ho sempre pensato che l'università non fosse soltanto un luogo di studio e formazione. Ho sempre pensato che fosse soprattutto luogo di incontri, esperienze, scambio di idee, crescita e maturazione personale. Un luogo che ti smussa il carattere, ti permette di confrontarti con persone diverse, migliori di te, peggiori di te, mediocri o eccezionali.
Da questi incontri spesso nascono idee, talvolta le idee si trasformano in realtà. Nel mio fortunato caso è successo. E' nato un giornale universitario. Ma anche una sorta di webtv, poi una specie di radio e via dicendo. Poi sono passati gli anni. Non c'era più tempo per dedicarsi agli "extra". Occorreva solo ultimare gli studi, ottenere il famoso pezzo di carta. Ultimare la collezione di CFU.
E il nostro progetto? Il giornale? Le videointerviste? Il sito?
Sarebbe morto lì? Da un giorno all'altro?
Abbiamo fatto i nostri sforzi per trovare qualcuno, più giovane, che portasse avanti il progetto. E lo abbiamo anche trovato. Ma era chiaro che non sarebbe più stato come prima. Era chiaro che, in ogni caso, un ciclo si era chiuso. Poi, subito dopo, ci fu altrettanto chiaro che ciò era cosa buona e giusta. Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Da questa piccola esperienza è nato questo piccolissimo racconto:


Il corpo pluricefalo

La facoltà appariva come un brontosauro dormiente. In quella sua veste notturna, durante la festa di fine semestre, l’edificio principale sembrava proteggere l’ampio cortile brulicante di studenti. Si offriva come confine ideale tra il mondo fuori, la città - piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce - e il microcosmo al suo interno, nel cortile dove i ragazzi addetti a spillare le birre stavano già lavorando a pieno ritmo.

“Ma-chi-si-vede!” scandì Dimitri. L’amico che al terzo anno aveva abbandonato gli studi per cercarsi un lavoro.
“Dimitri! Ma che ci fai tu qui?” dissi abbracciandolo.
Ci ritrovammo presto in fila, in attesa delle nostre bionde medie, mentre la band locale scaldava quella marea di studenti.

“Tu devi tirarti fuori da queste cose” mi aveva rimproverato Dimitri con il suo fare da fratello maggiore, pur essendo mio coetaneo. Lo sguardo verso la folla sotto il palco.
“Hai ragione… Infatti con questa festa si conclude la mia attività extrauniversitaria…” confessai sedendomi nell’erba tagliata di recente.
“Sei serio?” si stupì lui e mi guardò.
“Ebbene sì. Basta giornale, basta riunioni, basta eventi. Dal prossimo semestre solo esami.” Dissi, con il tono che userebbe un diabetico per confessare a un amico il nuovo regime alimentare impostogli dal medico.

La mia esperienza universitaria era stata strettamente collegata con la nascita e la vita di un giornale studentesco. I personaggi intervistati, le piccole inchieste, i rapporti con le istituzioni cittadine, i professori visti da una prospettiva diversa da quella banco-cattedra; tutto mi aveva arricchito, mi aveva svezzato.
Posso dirlo, ero cresciuto anche grazie al giornale.
Ora, però, qualcuno iniziava a laurearsi, qualcuno si era stufato.
E io dovevo recuperare esami.

Raccontai a Dimitri di quante volte ne avevo discusso con i miei coinquilini, compagni dell’avventura editoriale.
“Il giornale morirà lì, è finito – sosteneva il più cinico – ora che molliamo noi nessuno raccoglierà il testimone”.
Non mi piaceva l’idea della fine di un ciclo. Coltivavo la speranza che qualcuno si potesse inserire in questo ciclo, potesse dargli l’energia necessaria per fare un altro giro.
Però, l’evidenza aveva dato ragione al più cinico.
Non vedevamo forze giovani all’orizzonte. Così tutto finì.
Quasi come perdere una fidanzata. Stare insieme è finita, abbiamo capito, ma dirselo è dura. Lo sanno anche i Phoo.

La festa nel cortile proseguì e persi il conto delle birre.
Fu mentre sganciavo il lucchetto della mia bicicletta che capii una cosa.
Quattro ragazzi giovanissimi – più giovani di mio fratello minore - erano seduti sul marciapiede.
“Sai cosa manca a Ferrara?” disse uno.
Gli altri non risposero. Lo guardavano in attesa della rivelazione.
“Una radio. Una radio universitaria!” disse trionfante.
Gli altri si guardarono tra loro.
“Una radio… - considerò uno di loro – ma sì… Certo! Radio Unifé!”
“Mi piace – si sbilanciò un altro – mi piace… sì! Potremmo…”

E iniziarono a parlare di palinsesti, di eventi, di musica…
Ecco. In quel momento capii che non esistono inizi né fini. Siamo parte del tutto. Parte di quel corpo pluricefalo che è la popolazione studentesca.

Non bisogna per forza trasferire i propri progetti ad altri – considerai fra me – occorre, anzi, farsi da parte e permettere all’erba più tenera di fiorire per conto suo.

Mi lasciai alle spalle la facoltà e pedalai con calma nel fresco umido di quella notte in cui già potevo distinguere i sentori un’estate radiosa.

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