Ho sempre pensato che l'università non fosse soltanto un luogo di studio e formazione. Ho sempre pensato che fosse soprattutto luogo di incontri, esperienze, scambio di idee, crescita e maturazione personale. Un luogo che ti smussa il carattere, ti permette di confrontarti con persone diverse, migliori di te, peggiori di te, mediocri o eccezionali.
Da questi incontri spesso nascono idee, talvolta le idee si trasformano in realtà. Nel mio fortunato caso è successo. E' nato un giornale universitario. Ma anche una sorta di webtv, poi una specie di radio e via dicendo. Poi sono passati gli anni. Non c'era più tempo per dedicarsi agli "extra". Occorreva solo ultimare gli studi, ottenere il famoso pezzo di carta. Ultimare la collezione di CFU.
E il nostro progetto? Il giornale? Le videointerviste? Il sito?
Sarebbe morto lì? Da un giorno all'altro?
Abbiamo fatto i nostri sforzi per trovare qualcuno, più giovane, che portasse avanti il progetto. E lo abbiamo anche trovato. Ma era chiaro che non sarebbe più stato come prima. Era chiaro che, in ogni caso, un ciclo si era chiuso. Poi, subito dopo, ci fu altrettanto chiaro che ciò era cosa buona e giusta. Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Da questa piccola esperienza è nato questo piccolissimo racconto:
Il corpo pluricefalo
La facoltà appariva come un
brontosauro dormiente. In quella sua veste notturna, durante la festa di fine
semestre, l’edificio principale sembrava proteggere l’ampio cortile brulicante
di studenti. Si offriva come confine ideale tra il mondo fuori, la città -
piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce con tanta gente che
lavora, con tanta gente che produce - e il microcosmo al suo interno, nel cortile
dove i ragazzi addetti a spillare le birre stavano già lavorando a pieno ritmo.
“Ma-chi-si-vede!” scandì Dimitri.
L’amico che al terzo anno aveva abbandonato gli studi per cercarsi un lavoro.
“Dimitri! Ma che ci fai tu qui?” dissi
abbracciandolo.
Ci ritrovammo presto in fila, in
attesa delle nostre bionde medie, mentre la band locale scaldava quella marea
di studenti.
“Tu devi tirarti fuori da queste
cose” mi aveva rimproverato Dimitri con il suo fare da fratello maggiore, pur
essendo mio coetaneo. Lo sguardo verso la folla sotto il palco.
“Hai ragione… Infatti con questa
festa si conclude la mia attività extrauniversitaria…” confessai sedendomi
nell’erba tagliata di recente.
“Sei serio?” si stupì lui e mi
guardò.
“Ebbene sì. Basta giornale, basta
riunioni, basta eventi. Dal prossimo semestre solo esami.” Dissi, con il tono
che userebbe un diabetico per confessare a un amico il nuovo regime alimentare
impostogli dal medico.
La mia esperienza universitaria
era stata strettamente collegata con la nascita e la vita di un giornale
studentesco. I personaggi intervistati, le piccole inchieste, i rapporti con le
istituzioni cittadine, i professori visti da una prospettiva diversa da quella
banco-cattedra; tutto mi aveva arricchito, mi aveva svezzato.
Posso dirlo, ero cresciuto anche grazie al giornale.
Ora, però, qualcuno iniziava a laurearsi,
qualcuno si era stufato.
E io dovevo recuperare esami.
Raccontai a Dimitri di quante
volte ne avevo discusso con i miei coinquilini, compagni dell’avventura
editoriale.
“Il giornale morirà lì, è finito
– sosteneva il più cinico – ora che molliamo noi nessuno raccoglierà il
testimone”.
Non mi piaceva l’idea della fine di un ciclo. Coltivavo la speranza
che qualcuno si potesse inserire in questo ciclo, potesse dargli l’energia necessaria
per fare un altro giro.
Però, l’evidenza aveva dato
ragione al più cinico.
Non vedevamo forze giovani all’orizzonte.
Così tutto finì.
Quasi come perdere una fidanzata.
Stare insieme è finita, abbiamo capito,
ma dirselo è dura. Lo sanno anche i Phoo.
La festa nel cortile proseguì e
persi il conto delle birre.
Fu mentre sganciavo il lucchetto
della mia bicicletta che capii una cosa.
Quattro ragazzi giovanissimi –
più giovani di mio fratello minore - erano seduti sul marciapiede.
“Sai cosa manca a Ferrara?” disse
uno.
Gli altri non risposero. Lo
guardavano in attesa della rivelazione.
“Una radio. Una radio universitaria!”
disse trionfante.
Gli altri si guardarono tra loro.
“Una radio… - considerò uno di
loro – ma sì… Certo! Radio Unifé!”
“Mi piace – si sbilanciò un altro
– mi piace… sì! Potremmo…”
E iniziarono a parlare di palinsesti,
di eventi, di musica…
Ecco. In quel momento capii che
non esistono inizi né fini. Siamo parte del tutto. Parte di quel corpo
pluricefalo che è la popolazione studentesca.
Non bisogna per forza trasferire i propri progetti ad altri –
considerai fra me – occorre, anzi, farsi
da parte e permettere all’erba più tenera di fiorire per conto suo.
Mi lasciai alle spalle la facoltà
e pedalai con calma nel fresco umido di quella notte in cui già potevo
distinguere i sentori un’estate radiosa.
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